IL
MIO POSTO NELLA VIGNA
di Marco Mignardi
Un desiderio nuovo
Un giorno del 1972 a Bologna, al Centro Bernardi, l’istituto dove mi recavo quotidianamente per fare fisioterapia per le gambe a causa della disabilità, incontro un ragazzo con cui ci mettiamo a parlare dell’estate che doveva ancora venire. Lui era un volontario che mi aiutava a svestirmi per attendere il turno di terapia in piscina. Allora suonava la chitarra, oggi è un rinomato liutaio, si chiama Roberto Regazzi. Casualmente gli chiedo: “Che cosa farai in estate?”. La sua risposta è lapidaria: “Vado a Taizé”. Io sono sempre stato un tipo curioso e cominciai a chiedergli che cosa fosse Taizé. Lui mi disse semplicemente: “È una comunità”.
Nella
mia testa immaginai che Frère Roger fosse una persona religiosa coadiuvata da
un gruppo internazionale di ragazzi assolutamente laici. Ero lontano anni luce dall’idea
che avesse fondato un monastero.
In
quel periodo ascoltai i racconti di alcuni giovani volontari che ogni tanto
trascorrevano periodi più o meno lunghi sulla collina di Taizé. Il desiderio di
andarci cresceva in me, anche se non avevo una chiara percezione di ciò che mi
aspettava.
Alcuni
anni dopo, nel 1974, ascoltai alla radio un’intervista a Frère Roger. Mi colpì quella
voce serena che parlava francese. Ricordo il suo entusiasmo molto contagioso.
Alla fine del suo racconto ripresi a pensare quanto mi sarebbe piaciuto vedere
quel luogo. C’erano i primi segni di una parola nuova e affascinante per me: dialogo.
Forse questo tema mi coinvolgeva per la diversità di cui ero portatore a causa
del mio deficit motorio. La disabilità può portare al dialogo, perché è una
differenza che interpella. Il dialogo è una maniera per affrontare la
situazione.
Il mio primo soggiorno a Taizé
Nel 1979 conseguii il diploma di maturità. In quel tempo avevo conosciuto un amico durante un’esperienza di vita comune nella Comunità Papa Giovanni XXIII. Durante l’estate cominciai a pensare di realizzare il mio desiderio di andare a Taizé. Fu la sorella dell’amico a propormi, infine, di fare con loro questo viaggio di una settimana, tra la fine di luglio e l’inizio di agosto. La mia curiosità era al culmine.
Il
viaggio di per sé fu avventuroso e appassionante, ma vengo subito al momento
dell’arrivo. Il primo impatto con la Comunità di Taizé sembrò rovesciare tutte
le mie aspettative ideali. I monaci cantavano in latino; ciò mi apparve assurdo,
dopo il Concilio Vaticano II. Il cibo, poi, era pessimo...! Lo definivo un Ufo,
un oggetto volante non identificato. Negli anni successivi, però, la cucina di
Taizé è molto migliorata.
Dopo
il primo giorno, se avessi avuto le capacità motorie per andarmene, sarei
sicuramente ripartito e non credo proprio che sarei tornato una seconda volta.
Ricordo
però sempre con grande emozione il primo incontro con Frère Roger, perché si
trattava di una persona veramente capace di riportare a Dio tutte le attese e i
desideri umani. Almeno lui non era una delusione.
D’altro
canto la mia curiosità mi spingeva a cercare di comprendere più a fondo perché
provassi tanta avversione verso un luogo che per anni avevo desiderato vedere. Nei
giorni seguenti, quindi, pur essendo disgustato, decisi di mettere alla prova
il mio francese scolastico e mi rivolsi a uno dei monaci della comunità, Frère
Léonard. Sentivo il bisogno di un colloquio spirituale per chiedere che senso avesse
la mia vita e come avrei potuto vivere da credente nella mia condizione di disabilità.
Frère
Léonard si presentò con la veste bianca (i monaci di Taizé la indossano
soprattutto per la liturgia) e alla fine dell’incontro mi disse per tre volte
che dovevo pregare. Per un attimo la profondità di quell’invito mi scosse. Poi mi
presentò un confratello che parlava italiano, Frère Pierino, e mi disse che, se
volevo, potevo continuare con lui il mio dialogo di approfondimento della fede.
Accettai
e dopo due giorni andai da Frère Pierino. Lui mi avvertì che Dio ama i tempi
lunghi. Mi consigliò di cercare il senso della mia vita a Bologna, di cercare
uno spazio vocazionale anche presso l’Associazione Papa Giovanni XXIII e di
venire eventualmente a Taizé per momenti di ritiro spirituale. Parlando con lui
mi resi conto anche di alcune caratteristiche del luogo. Cominciai a
comprendere che mi trovavo in una comunità religiosa e che la vita dei monaci
era interamente ritmata dalla preghiera.
Durante
quel primo soggiorno, con il responsabile del gruppo e un ragazzo messicano,
Ramiro, svolsi un lavoro molto carino: mentre gli altri giovani pulivano i
bagni, io dovevo dire “chiuso” in tutte le lingue. Anche questo era un
servizio!
In
certi momenti assaporavo la serenità di quella collina e mi interrogavo sulle
contraddizioni del mondo esterno. Il silenzio in comunità mi aiutava a
riflettere sulla mia vita, anche se non comprendevo ancora che cosa potessi
fare con la mia disabilità in un luogo come quello.
Il primo inserimento lavorativo:
un’esperienza deludente
Nel gennaio del 1980 cominciai a lavorare come impiegato presso un ente pubblico. Dovevo solo timbrare delle carte per tutto il giorno. Mi trovavo a vivere una realtà che non mi appassionava per niente e che non mi dava nulla rispetto alle soddisfazioni ricevute dallo studio. Cominciai a pensare di iscrivermi all’università. Solo diversi anni dopo avrei realizzato quel progetto. Dentro di me continuavo a interrogarmi, come se chiedessi a Dio: “Perché sono attratto da Taizé?”. A volte, nei giorni di malinconia, scrivevo a Frère Pierino che però non rispondeva quasi mai a causa degli impegni in comunità e perché, per sua stessa ammissione, non gli piaceva scrivere.
In
quel periodo, nonostante lo sgradevole impatto iniziale si fece strada in me il
desiderio di conoscere meglio Taizé e di provare a viverci. Nel frattempo
proseguivo un mio servizio caritativo presso la Mensa della fraternità della
Chiesa bolognese: facevo compagnia alle persone povere che vi si recavano per
mangiare. Non mi trovavo bene, invece, con l’Associazione Papa Giovanni XXIII;
forse per colpa mia, mi ci sentivo sempre in una posizione passiva, come
l’assistito di turno, mentre a Taizé non avvertivo molto la disabilità.
La concretezza della fede
Il 1980 e il 1981 rappresentarono un periodo di transizione. Allora la fede per me significava fiducia, ad esempio nella persona che spingeva la mia carrozzina. Pensavo che la fede agisse in maniera quasi automatica e forse mi illudevo che questo bastasse a superare ogni tipo di ostacolo. Credo che sia vero quello che sentivo dire dai monaici di Taizé: Dio non si comporta come un padrone assoluto ma si fa collaboratore della storia umana, quindi anche della mia storia. Io non mi sono mai sentito condannato a vivere, ma ho sempre concepito la vita come un’opportunità. Quando ero più giovane pensavo ingenuamente che la fede s’incontrasse con la vita e invece, molto spesso, vedevo che vita e fede si scontravano. Condividere la fede non vuol dire accerchiare l’altro cercando di costringerlo a vivere ciò che io vivo, ma mettere in comune visioni sociali ed ecclesiali in ogni modo diverse, perché proveniamo da storie, tradizioni, modi di sentire e di essere che presentano una più o meno ampia varietà. In ogni caso si tratta di ascoltare la bellezza di Dio.
La
comunità di Taizé non offre ricette, proprio perché sceglie di ascoltare, e non
propone in sé nessun tipo specifico di cammino. Offriva ai giovani
un’esperienza che poteva aiutarli a inserirsi nella Chiesa locale di
provenienza. Era frequentata infatti da molti ragazzi cristiani “marginali”,
ancora non bene inseriti nelle loro parrocchie. Una volta a casa, ciascuno
poteva entrare nella vita della chiesa locale e trovarci il proprio spazio. In
questo quadro io parlavo spesso della mia avventura di giovane disabile che
faceva il volontario alla mensa diocesana della Caritas a Bologna.
La
disabilità, richiedendo sempre qualche aiuto da parte degli altri, porta a
relazionarsi con il prossimo e quindi con Dio. Spesso si diceva, quando ero
piccolo, che per ottenere qualcosa si deve chiedere la grazia al Signore. Ma
non è così, piuttosto bisogna aprire il cuore alla grazia che Dio già concede per
il nostro cammino.
In
questa visione io non sono più lo spettatore passivo che subisce la diversità
come una condanna, ma prendo parte con pieno diritto a compiti e responsabilità
particolari. Perciò mi piacevano i piccoli lavori da svolgere in comunità. Ho
imparato che un lavoro, anche se umile, si rivela importante nella visione
complessiva.
Il tempo di Taizé
Prima di conoscere Taizé non avevo mai visto un luogo in cui la preghiera ritmasse tutta la giornata e attraversasse la vita intera. Negli altri gruppi che ho conosciuto durante la mia giovinezza, notavo quasi un prima e un dopo la preghiera. Prima si faceva una discussione e dopo si pregava. La frase emblematica era: “Basta, ora andiamo a messa”, come se si trattasse di un’esperienza staccata dalla vita. A Taizé accadeva il contrario: la preghiera attraversava la vita, non era un elemento aggiuntivo o separabile. Nella comunità la preghiera e la vita s’incontravano.
Dopo
la sveglia alle otto, la preghiera del mattino è introdotta dal silenzio,
mentre le campane richiamano i giovani e tutte le persone presenti a Taizé a
riunirsi per cominciare la giornata in comunione con se stessi, con gli altri e
con Dio.
La
preghiera del mattino comincia nel silenzio, ancor prima dell’arrivo in chiesa
di tutti i monaci. Questo spazio di silenzio che apre il giorno aiuta poi a viverlo
meglio; almeno, io sentivo così. Spesso decidevo nel mio cuore a chi avrei
dedicato la preghiera comune di quel giorno; la mia intenzione rimaneva
determinata e questo mi dava serenità.
Di
solito dopo il canto dell’Alleluia viene letto nelle varie lingue un brano del
Primo Testamento, poi si canta un salmo. In seguito viene intonato un canone
della comunità e si arriva al momento centrale della preghiera del mattino, il
Silenzio: un silenzio prolungato che aiuta a entrare nel cuore della preghiera,
dove tutto in quello spazio diviene armonia.
Dopo
è proclamata la preghiera dei fedeli. I monaci ricordano alcune situazioni o
persone che vivono momenti di particolare gravità, o i loro amici che vivono in
diverse parti del mondo.
Infine
si recita il Padre nostro, ognuno nella propria lingua; ci si scambia il segno
della pace e ci si accosta all’eucaristia.
Sull’onda
di questa preghiera si va a fare colazione.
Dopo
c’era anche la possibilità di andare a spasso, ma a causa della mia limitazione
motoria di solito mi ritrovavo a partecipare alla lettura biblica di gruppo. Questo
mi ha in ogni caso consentito di scoprire l’importanza centrale della Parola. È
un modo molto semplice di percepire la preghiera, direi più esperienziale che
teologico. Anche nelle presentazioni dei personaggi biblici, tende a proporli
come personaggi ordinari, con storie di vita fatte di frustrazioni e fallimenti,
ma anche di gioia e di atti di fiducia.
Con una
prima introduzione fatta da un monaco della comunità, in cui viene presentato un
brano biblico nelle varie lingue, si forniscono le chiavi di lettura per
ciascuno nelle diverse situazioni di vita locale, nella propria situazione
singola o di gruppo. Il frère pone alcune domande intese a stimolare la presa
di coscienza per impegni concreti, là dove ognuno è chiamato dalla Provvidenza
a vivere. Ci si divide poi in piccoli gruppi per condividere le risposte.
I
monaci rivolgono un’attenzione particolare alle realtà lontane, circoscritte e
poco note. Non avevo mai fatto esperienza, prima di allora, di un metodo di
lettura della Parola che collegasse la storia sacra alla storia di oggi. Nel
pensiero comune accade sovente di guardare alla storia di oggi come se non
facesse parte della storia di ieri. Invece mi sono reso conto, in quegli anni,
che Dio guida la mia storia.
Io
fatico a comprendere perché si verificano situazioni in cui a volte vengo
lasciato solo. In comunità la situazione di solitudine non sembrava un peso
difficile da portare, forse perché vedevo dei monaci che avevano compiuto
liberamente la scelta del loro stato di vita.
In
quel luogo una persona poteva anche osservare che nessuno era perfetto e che
era il cuore di ogni singola situazione a contare, infine, davanti a se stessi
e a Dio. Questa è stata per me una grande scoperta. I monaci dicevano che era
il cuore che contava, non solo il rito ma la capacità di accogliere l’altro.
Il
mio cuore restava sempre favorevolmente sorpreso perché in comunità, nei limiti
consentiti dalla parola, la libertà era accettata e nessuno in linea di massima
sgridava i giovani, quindi anch’io vivevo e respiravo libertà. È chiaro poi che
nel seguire o meno le attività proposte dalla comunità stessa, la persona viene
responsabilizzata a puntino.
Nei
primi anni la preghiera del mezzogiorno rappresentava la maggiore novità per
me. In nessun ritiro spirituale avevo mai visto fermare ogni attività e pregare
in quell’ora.
Alla
fine la preghiera entra talmente nel tuo ritmo quotidiano che diventa parte di
te. Questo è un cammino! Io devo ringraziare Dio e i miei responsabili, ma sei
tu che scegli di pregare. Se non lo fai tu, nessun altro lo farà per te. Se Dio
è un amico, perché non parlare con lui sempre, al di fuori degli schemi?
Segue
il pranzo, morigerato. La persona è richiamata alla sobrietà di vita con gesti
semplici ed essenziali.
Nel
pomeriggio si svolgono prove di canto e piccoli gruppi di approfondimento,
alternati a umili servizi da effettuare in comunità. Alle cinque si serve il
tè, poi fino alle 19 il tempo è libero. Dopo la cena si fa la preghiera della
sera. Infine, si passano le ultime ore cantando in allegria, fino alle 23, al
bar di Taizé.
Una
volta andai a cena con i monaci e compresi che la loro sobrietà era una condivisione
con i poveri del Sud del mondo. La semplicità e la scarsa quantità del cibo
aiutavano a percepire il poco che tanta gente si trova sulla tavola, in
contrasto con l’abbondanza dei paesi del Nord. Quel modo di condividere era
attraente per i giovani del mondo ricco, che imparavano così a pensare alla
reale situazione complessiva del genere umano.
Come
ho detto, seguivo in particolare i gruppi biblici. Verso la conclusione dei
periodi di permanenza si svolgevano incontri per nazioni, tenuti dai fratelli
nelle varie lingue. In quelle occasioni si tentava di mostrare come il cammino
iniziato in comunità avesse condotto parecchie persone che si definivano
lontane dalla chiesa ad avvicinarsi al Vangelo, a fare domande e a ricevere una
salutare scossa riguardo al senso della loro vita.
Capivo
che qualcosa dentro di me andava modificandosi. Amavo la semplicità e la
disponibilità di tutti ad aprire il proprio cuore, che si manifestavano in
quelle circostanze.
Negli
incontri, quando si formavano i piccoli gruppi, si constatava come la realtà
delle varie diocesi fosse molto diversa. Si parlava della vita ecclesiale
locale, delle dimensioni caritativa e missionaria. La condivisione delle gioie
e delle tensioni veniva a costituire un tentativo comune di dare una svolta
alle attività dei gruppi giovanili per rinvigorire e infondere un nuovo slancio
alle parrocchie.
Si
parla spesso della crisi di fede tra i giovani. Secondo me i pastori della
comunità ecclesiale italiana potevano essere soddisfatti, almeno in quegli
anni, guardando alle percentuali dei ragazzi italiani che si recavano a Taizé.
Anche i monaci dicevano che gli italiani erano i più numerosi.
Questa
è la “tabella di marcia” della comunità fino al giovedì. Il venerdì, invece, dal
momento del pranzo fino alle sedici si sta in silenzio. Segue la preghiera
attorno alla croce, in cui tutti i giovani depongono dinanzi a Cristo i loro
problemi, ansie e speranze, poggiando fisicamente la fronte sulla croce. Il
sabato la preghiera della sera è un’anticipazione della liturgia domenicale in
cui si legge il testo evangelico della risurrezione. Dopo, con tutte le candele
accese, si canta la gioia del Risorto. Infine ci si ritrova a danzare al bar di
Taizé.
Parlare
della domenica mi fa venire nostalgia perché era il giorno della partenza.
Luogo del cuore
Io amavo Taizé per la vita semplice e perché per molti anni mi ci sono sentito a casa. Amavo la spontaneità della vita di Taizé dove nessuno giudica la tua storia. Il mio frutto personale è stata la condivisione con tutti e la pace interiore che nasceva dal consegnare a Gesù le proprie fragilità. Queste non sono negative: rappresentano il segno visibile che abbiamo bisogno di vivere Gesù come un amico che non ci abbandona mai.
A
Taizé pur nella diversità mi sentivo felice. Ritrovavo il senso del mio deficit
motorio e ascoltando gli altri giovani mi pareva di non invecchiare mai. Mi
sarebbe piaciuto provare una vera esperienza lavorativa, purtroppo non ci sono
mai riuscito. A Taizé la morte fisica sembrava non farmi nessuna paura, mentre
a Bologna ogni tanto mi chiedevo che cosa avrei consegnato a Gesù, perché
talvolta mi sembrava di non riuscire a dare frutti di vita.
Dal
punto di vista delle capacità fisiche, forse Taizé non era il mio posto, però lo
sentivo profondamente dentro di me e non riuscivo a farlo comprendere.
Ci
sono tre parole nella regola di Taizé. Gioia. Mi ha sempre colpito. Per
Frère Roger significava qualcosa di interiore, qualcosa di trasparente alla
vita: vivere come gocce di Vangelo. La semplicità dei rapporti umani come
immediatezza, senza maschere, e la misericordia, l’apertura costante al cuore
dell’altro.
La semplicità
è abituarsi a vivere con l’essenziale. A Taizé non hai bisogni indotti dal
desiderio di possedere qualcosa, forse perché il povero e il ricco sono accolti
nello stesso modo. Io non sentivo il peso della disabilità perché dovevo vivere
le stesse tematiche che vivevano le persone normodotate.
Misericordia significa
trasparenza, cercare e trovare la comunione umana e spirituale con l’altro
superando i nostri e i suoi limiti. Mai la durezza di cuore! Gesù lo dice
chiaramente ai farisei: “Voi siete a posto con la legge ma il vostro cuore è
duro come la pietra”.
In
sintesi, vivere con l’essenziale, avere un cuore aperto, pieno di fiducia e
trasparente alla vita. Andare al di là del muro per vedere con occhi nuovi e
pieni di speranza.
A
esperienza conclusa (penso di non tornare più a Taizé; vado solo alla preghiera
mensile del gruppo di Bologna), posso affermare che la preghiera in comunità ha
fortemente segnato la mia vita, anche se poi ho dovuto adattarla alle mie
esigenze.
Ora chiedo
a Dio: “Come stai?”. Ho capito che anche con Lui bisogna instaurare una
relazione d’amore e di vita.
Che cosa posso fare?
A Taizé è stata eretta una Cappella delle Fonti, che ricorda a tutti i pellegrini il significato essenziale del battesimo. In questo angolo di silenzio sulla collina, chi vuole può riviverlo. A Taizé viene posta particolare attenzione ai tre sacramenti dell’iniziazione cristiana. Questi segni costituiscono il passaggio verso una vita consapevole nella fede per impostare un cammino vocazionale adulto.
Solo
negli ultimi anni dei miei ritiri a Taizé sentii interrogare i giovani sul
significato di un sì a Gesù nel celibato. Io già da molto prima me ne sentivo attratto,
anche se non capivo i segni interiori e come si manifestavano.
In
questa ricerca del mio posto nella vigna, mi rivolsi anche ad altri monaci. La
risposta più sorprendente me la diede un confratello polacco, Frère Marek,
quando gli chiesi come comprendere i segni di Dio: “I segni di Dio si
comprendono nella piccolezza e nella semplicità”. In quegli anni mi aspettavo
ancora qualcosa di evidente e magari percepibile, ma non ti viene dato
l’originale del disegno. Cominciai allora a comprendere che dovevo accettare di
non farmi domande, anche se a volte mi chiedevo quale senso avessero i miei
ripetuti soggiorni sulla collina di Taizé. Dovevo collaborare al disegno, non
pensarlo io. La collina faceva parte integrante della mia esperienza, non come
io l’immaginavo, ma in maniera da dare una certa forma al mio rapporto con Dio.
Desideravo
che non mi rispondessero solo in funzione delle gambe storte o dritte, ma che
una buona volta guardassero alla persona. Troppo spesso, infatti, di fronte
alla mia disabilità sembra che tutti sappiano dirmi che cosa non posso fare, ma
se si volge la domanda al positivo, su che cosa posso fare, allora non ci sono
risposte.
Una
volta, in un’altra situazione, chiesi a Ernesto Olivero: “Se lei fosse nato
disabile, sarebbe mai riuscito a fondare il Sermig?”. Mi rispose che nessuno
gli aveva mai posto una domanda simile.
Un
motivo di delusione, per me, è stato il pensiero che bastasse la mia volontà
per scegliere, mentre, come in ogni discorso di coppia, bisogna chiaramente essere
in due. Forse però si sarebbe potuto verificare se davvero una persona con
disabilità motoria non era capace di reggere alla vita di Taizé. Almeno per non
escluderla in partenza dal gioco della vita.
Racconto
questo nella speranza che diventi più facile per le persone come me rivolgersi
a una comunità religiosa per compiere un discernimento vocazionale, senza
disagi o imbarazzi da ambedue le parti. Non solo la persona disabile nel suo
cammino di fede può aver bisogno di comprendere quale sia la strada migliore
per lei, ma anche la comunità dovrebbe aspettarsi richieste di questo tipo.
Forse l’aspettativa, la “percezione di normalità” di una simile domanda
influisce sulle maniere di rispondere.
Colorare
il cielo di blu e non vederlo sempre grigio potrebbe essere un primo spiraglio.
In
quegli anni un giorno Frère Pierino mi propose di provare un lavoro che, se
fosse riuscito, si sarebbe rivelato molto attraente. Dovevo, nel negozio della
comunità, cercare di vendere tutti i souvenir fabbricati dai fratelli.
L’esperimento durò poco tempo e alla fine mi dovetti arrendere all’ennesima
frustrazione sul piano umano. Il discorso si poneva anche in questi termini. In
fondo la comunità non aggiungeva né toglieva niente alla mia ricerca nel
quotidiano a Bologna, perché non ci vedevo nessuna esperienza diversa che io
potessi fare.
Intanto
passavano gli anni. Ero partito con l’idea che sarebbe venuta un’indicazione
nuova, ma alla fine non la vidi, almeno non in quel periodo.
Nelle
altre esperienze sentivo in maniera molto forte la disabilità che invece, a
Taizé, percepivo diversamente. È probabile che io non vi abbia sperimentato
tutte le difficoltà possibili, ma quella realtà mi piaceva perché l’avevo
scelta io, senza nessun tipo di imposizione dall’esterno. Per fare un paragone
con l’università, ero io che per una volta sceglievo l’esame da superare. Mi
piaceva partecipare agli incontri, mentre qualcun altro preferiva andare a fare
un giro. Io non ero là per turismo, trovavo molto interessanti quelle riunioni internazionali.
Non rimpiango di aver fatto poche vacanze; così ho imparato uno stile che poi
ho mantenuto, in una forma adattata alla situazione, nella mia vita quotidiana
a Bologna.
Un
momento importante nella mia vita di fede fu anche, nel 1983, il viaggio che
feci in Terra Santa insieme a due preti. Continuavo a recarmi a Taizé ogni
anno, solo nel 1987 non ci riuscii perché non trovai nessun accompagnatore.
Uno strano esperimento
Nel 1990, dopo un viaggio in Bretagna e Normandia, arrivo in comunità e riesco, nella settimana di gruppo biblico, a svolgere un servizio interessante. Provo, con le mie pur limitate capacità fisiche, a lavorare in chiesa nel trasporto dei panchetti. È un’esperienza, nel suo piccolo, molto originale e, seppure per breve tempo, risveglia e amplifica la mia curiosità.
L’anno
seguente, per la seconda e ultima volta, riesco a trascorrere due settimane
complete e consecutive, con l’aiuto di
amici di Desio – conosciuti a Taizé – e di Bologna.
Anche
nel 1991 ho fatto la settimana di gruppo biblico. Le difficoltà oggettive collegate
all’impatto fisico andavano riducendosi e ci mettevo sempre meno a entrare in
comunione con il luogo, con la comunità e i suoi ritmi, e in ultima analisi con
Dio. Alla fine della settimana, nonostante le fatiche, ero contento e al
pensiero di ripartire sentivo come un vuoto, un po’ di malinconia.
Ogni
anno la comunità di Taizé organizza un meeting giovanile in una città europea. L’incontro
europeo del 1991 si svolse a Budapest. In quell’occasione Frère Pierino mi
propose un lavoro di raccolta dati: mi diede un foglio in cui tutti i
responsabili dei gruppi giovani dovevano scrivere nome, cognome, città di
provenienza e il codice della parrocchia o della scuola di Budapest dove erano
alloggiati. Tutti venivano da me per registrarsi ma alla sera,
inavvertitamente, rovesciai un bicchiere di tè sul documento. Mi venne un
attacco di depressione... Allora c’erano pochi computer e io non li sapevo
usare.
Nel
1992 vidi un monaco prendere i voti nella comunità. Se non ricordo male era
coreano. Poco prima che Frère Roger cominciasse a interrogarlo durante il rito,
decisi di fare un esperimento: di provare a rispondere nel mio cuore alle
domande che il priore avrebbe rivolto al candidato che si accingeva a fare la
professione perpetua. L’esperimento fu fallimentare, perché ad alcune domande
mi venne naturale rispondere con un “sì”, ad altre con un “forse” e a quella
sull’obbedienza con un “no”.
Questa
esperienza, per quanto tutta interiore e abbastanza strana, sembrò lasciarmi
dentro un piccolo vuoto. Decisi di riprovare nel 1993, a Dio piacendo, il
soggiorno di due settimane.
Volli
anche far conoscere la comunità di Taizé ai miei genitori, prima che
diventassero troppo vecchi per affrontare il viaggio. Mio padre rimase colpito
dal senso di comunione fra tutti i giovani e dal silenzio durante le preghiere
comuni. Mia madre invece non conservò un ricordo preciso della settimana sulla
collina.
Io
nel frattempo avevo visto finire un rapporto con una ragazza a cui volevo molto
bene. Avevo gettato al vento le ore di permesso studio datemi dall’azienda in
cui lavoravo. Ormai mi mancavano solo tre esami per laurearmi in Pedagogia, ma
come studente universitario mi sentivo parecchio in crisi.
In
questo contesto nel 1993 decisi di non impegnarmi particolarmente a Taizé,
limitandomi a fare una settimana di gruppo biblico e una settimana di silenzio.
Un inquietante presagio
In quella settimana Frère Pierino cominciò un dialogo che io sulle prime non compresi bene. Mi disse infatti che dovevo distinguere tre livelli: 1) le cose che facevo e che mi piaceva fare, compresi gli studi universitari; 2) le cose che dovevo fare per forza ma che non mi piaceva fare, compresa la terapia; 3) le cose che non avrei mai potuto fare.
Alla
fine della seconda settimana di soggiorno a Taizé mi tornò in mente la domanda
che ogni tanto rivolgevo a Dio: “Perché mi hai fatto frequentare per tanto
tempo un luogo, se poi non era quello che dovevo scegliere in maniera
finalizzata a un percorso di vita adulta?”.
Mi
resi conto che anche nella realtà ecclesiale scattavano gli stessi meccanismi
che determinavano il rifiuto da parte delle ragazze: alla fine mi guardavano
sempre le gambe. Solo che a essere respinto dalle donne ero già psicologicamente
preparato, mentre da un monastero mi aspettavo margini di dialogo più ampi. Avevo
creduto di poter scegliere qualcosa che piacesse anche a me, visto che entrava
in gioco anche la mia volontà. Mi ero dunque illuso?
L’episodio
offre nella sua semplice drammaticità il vecchio problema: erano sempre gli
altri a decidere per me. Anche se la loro decisione era forse la più saggia, io
la sentivo e la vivevo nei momenti cruciali come un’imposizione. Tutti mi
dicevano sempre che cosa non dovevo fare, ma quando si trattava di dirmi che
cosa dovevo fare concretamente, sembrava che io appartenessi a una comunità che
non c’è. Da qui al pensiero di non farmi più vedere a Taizé il passo era breve,
ma ben presto sarei stato smentito dai fatti.
Intanto
l’università continuava e nel 1993 non avevo voglia di andare all’incontro
europeo che si sarebbe svolto a Monaco. Il mio confessore e padre spirituale
del tempo, don Edelwais Montanari, mi disse di cercare ancora e di ricordarmi
che su Taizé lui non avrebbe mai detto di no.[1]
Avevo
conosciuto un sacerdote, don Massimo Ruggiano, che stava per recarsi all’incontro
europeo di Monaco. Come il figlio della parabola, che dapprima dice no alla
richiesta di andare a lavorare nella vigna del padre, ma poi si pente e ci va,
dopo un momento di profonda avversione mi lascio prendere e alla fine parto con
slancio.
A
quel punto, dopo aver ricucito l’ennesimo strappo con Frère Pierino, la vita
continua. Don Massimo, tra gli agi di un convento di suore tedesche, mi confida
il suo progetto di costruire un focolare della Comunità dell’Arca nella
parrocchia dove allora faceva il cappellano, a Medicina in provincia di
Bologna. In seguito l’Arca si stabilì definitivamente in un’altra parrocchia
della provincia bolognese, a Quarto Inferiore.
In quegli
anni avevo conosciuto una ragazza presso la mensa diocesana di Bologna, e me ne
ero innamorato. A volte dicevo a Dio, scherzando ma non troppo: “Fammi restare
in una delle due realtà, la ‘diocesi di Bologna’ o Taizé”. Per me furono anni
di grande silenzio divino, perché quella ragazza poi si sposò e non la rividi
mai più.
Don
Massimo mi chiese: “Quando tornerai in comunità a Taizé?”. Mi sentivo incerto e
confuso, risposi che non sapevo se ci sarei tornato. Il desiderio si era
affievolito nel mio cuore e sembrava chiaro che non sarei riuscito a diventare
monaco in quella comunità. Negli anni 1994 e 1995 non ci andai.
L’anno della laurea
Il 20 marzo del 1996 si realizza un sogno di cui forse solo adesso comincio a valutare la portata complessiva. In quell’ultimo mattino d’inverno concludo il mio ciclo di studi conseguendo la laurea in Scienze dell’educazione. Non pensavo più alla comunità, ma Dio invece ci stava pensando, in quel suo modo così diverso dal mio.
Avevo
lasciato per ovvi motivi anagrafici il gruppo giovani della parrocchia. Una
domenica di fine marzo, alla preghiera mensile che si ispira alla comunità della
collina francese, il cappellano di allora, don Tino Modena, mi dice: “Marco,
vorrei conoscere la comunità di Taizé. Vieni anche tu?”. Ancora una volta mi
comporto come il figlio della parabola: all’inizio mi rifiuto, poi mi pento e
alla fine accetto. Per me l’entusiasmo ha sempre l’ultima parola affermativa.
Così nella settimana dopo Pasqua del 1996 parto con don Tino e altre otto
persone.
In
quella settimana per la prima volta partecipo al gruppo biblico con gli adulti.
Al primo incontro con Frère Pierino gli faccio le mie scuse per avere
interrotto i rapporti, ma continuo a non accettare il discorso dei tre livelli:
1) le cose che fai e che ti piace fare; 2) le cose che devi fare per forza ma
non ti piacciono; 3) le cose che non potrai mai fare.
Un
giorno accade un episodio che mi fa riflettere. Dimentico il borsello aperto
con molto denaro e lo lascio incustodito. E proprio Frère Pierino mi sgrida
severamente. Nella sostanza mi richiama al valore dei soldi. Rimango perplesso
perché ritenevo che i soldi non dovessero avere l’ultima parola, pur
comprendendo che è sbagliato lasciarli in giro.
Frère
Pierino era l’economo della comunità. In quei giorni dovette rifiutare di
accogliere un giovane di colore che non poteva pagare la retta. Pierino ci
rimase ancora più male del ragazzo. Si sentiva in colpa da morire. A me sembrò
che la comunità lo stesse lasciando solo. Dal mio punto di vista anche il
responsabile di un settore dell’amministrazione è una persona che ha bisogno di
essere sostenuta nelle sue decisioni. Io non sapevo come aiutare Pierino a
portare quel peso. Questo episodio mi fece venire qualche dubbio nei confronti
della comunità.
Quella
settimana pasquale del 1996 si concluse con la promessa che feci a Frère
Pierino di rivederci in agosto.
Una
risposta sconfortante
In seguito decisi con un amico di passare una settimana d’agosto in comunità. Realizzavo così per la seconda volta il desiderio di andare sulla collina... da laureato. La prima volta non ne avevo avuto una consapevolezza così chiara.
Incontrai
nuovamente Frère Pierino e lo vidi molto teso, come quasi mai l’avevo visto
prima di allora, al punto che ne fui un poco intimidito e rinviai a un momento
migliore la domanda che intendevo rivolgergli. La motivazione di quell’estremo
nervosismo era la scomparsa improvvisa di Max Thurian, il vice priore della
comunità.
Rividi
Frère Pierino il sabato successivo. Nel frattempo avevo superato ogni resistenza
interiore a porre la richiesta. Non c’era niente di male.
La
domanda fu: “Secondo te quale ruolo potrei avere in una comunità come questa e
specificamente a Taizé?”.
La
risposta fu: “Nessuno, perché tu sei condannato a vivere una condizione che non
ti consente certe cose. Ormai sei grande”.
Queste
parole provocarono in me un grande sconforto, tanto più pensando a chi me le aveva
dette. Fin da subito provai a cancellarle dalla mente, ripromettendomi di non
porre mai più a un religioso domande del genere. Provai in ultima analisi a
cancellare Dio, ma una simile operazione non riesce a nessuno, perché Dio abita
sempre nel profondo del cuore di ciascuno.
La
crisi, dopo diverse fasi, è superata. Adesso, quando vivo momenti di maggiore
malinconia, ogni tanto chiedo a Dio: “Perché mi hai fatto incontrare la
comunità per tanti anni, se non era quello il cammino che dovevo percorrere per
una maturazione umana e spirituale?”. E gli dico: “Spero che alla fine sarai
contento di come ho trattato i talenti che mi hai donato. Spero che tu mi
prenda nel tuo regno che rimane l’essenza stessa dell’incontro con Te,
nell’eternità che non avrà mai fine”.
Nonostante
lo sconforto provato, considero tuttora Pierino un amico, anche se non l’ho più
incontrato.
La fede, la disabilità e una diversa
visione di Dio
Fin da piccolo, nella mia pur complessa situazione fisica, ho sempre pensato che Dio con me non si è sbagliato. Ho sempre rifiutato quasi strutturalmente la visione del “condannato a vivere”. Da bambino vivevo la disabilità come un’opportunità. Con il passare del tempo mi sono accorto che però il mondo la osservava con uno sguardo che induceva passività e tendeva a rendere inutili gli sforzi per migliorare la situazione. Poi, è chiaro che io non cerco rivendicazioni con i doni di Dio, cioè con la vocazione religiosa. Non volevo fare il frate per forza ma avere delle risposte sulla mia vita e nella mia ingenuità pensavo che i monaci me le potessero dare.
Frère
Roger ha esercitato su di me un forte carisma con la sua estrema discrezione.
Ricordo ancora il nostro primo incontro, quando mi chiese se ero credente.
D’impeto gli risposi: “Forse”. Lui mi disse: “Dio ha attraversato la via della
croce prima degli uomini. Questo ti conforti nell’attesa della vita eterna. Si
può vivere la croce con la prospettiva che Dio accompagna l’uomo sempre. Anche
quando noi non ce ne accorgiamo, Dio è sempre presente e attento alle vicende delle
persone”.
Ricordo
sempre il senso di rispetto e d’attenzione che aveva nelle meditazioni brevi,
perché in chiesa era Dio che doveva parlare, non gli uomini.
Io,
pur nella mia difficoltà di compiere una scelta vocazionale, mi sono sempre
sentito compreso nel profondo da Frère Roger, perché non etichettava mai il
cuore umano. Forse per lo stesso motivo, quando mi trovavo a Taizé non avevo
paura della morte.
A
Taizé ho imparato a vedere Dio come un amico, non come un giudice che condanna
ogni mio difetto. Frère Roger diceva che Dio scende fino al punto più basso in
cui si trovano gli esseri umani. Questo pensiero mi ha sempre confortato molto.
Anche quando tendevo ad autogiudicarmi troppo, meditando sull’amore di Dio
ritrovavo un senso di grandissima pace interiore. Accettavo di partire da Gesù,
non dai miei successi o fallimenti.
Dio scende
nel punto più basso della mia fragilità quando mi sento sconfitto. Questo
pensiero all’inizio mi ha inquietato un poco, ma poi ho capito che Dio non vuole
punire, non picchia sulle mie fragilità.
Il
giorno della traumatica scomparsa di Frère Roger, dopo il lacerante sconcerto
iniziale, avvertii da un lato il distacco della morte, dall’altro la tenerezza
della morte. Non avevo mai provato una sensazione così profonda e misteriosa in
seguito alla scomparsa di una persona conosciuta. Da quel giorno la mia paura
della morte è divenuta tenerezza. Mentre prima pensavo alla morte lasciandomi
dominare dalla paura, ora ricordo Frère Roger che ne parlava come della via per
l’eternità, per incontrare un Altro che non è un giudice pronto a punire i miei
limiti, ma un amico che condivide il mio cammino.
Nel
1997 non chiesi un incontro con Frère Pierino. Decisi, forse in maniera
inconsapevole, di prendermi una pausa di riflessione. Non immaginavo che quello
sarebbe stato il mio ultimo soggiorno a Taizé. Fino ad oggi le circostanze della
vita non mi hanno più consentito di tornare nella comunità sulla ridente
collina della Borgogna.
Fu
una settimana molto ordinaria. Ricordo la dolcezza di alcuni tramonti sulla
collina, sempre tersi di speranza per la mia vita, per quella delle persone a
me più vicine e per tutti gli uomini che vivono con me su questo meraviglioso pianeta.
Gli incontri europei
Anche dopo aver cessato di recarmi in estate nella comunità di Taizé, ho continuato a partecipare ai suoi incontri europei della durata di cinque giorni a fine anno. Ne ho seguiti ventiquattro, fino al 2007. Mi piacevano moltissimo. Ringrazio tutte le persone di Bologna che nel corso del tempo hanno condiviso con me quella grande avventura. Era come mettersi in viaggio insieme a Dio.
Ammiro
la comunità perché con questi incontri si immerge nel ritmo urbano e sceglie di
incontrare un mondo civile ed ecclesiale nel suo complesso.
Incontrare
famiglie e parrocchie, ascoltare esperienze anche di matrice laica vuol dire
far percepire, come diceva Frère Roger, che Dio parla a tutti, si fa vicino a
tutti ed è qui per tutti e con tutti.
Sì,
gli incontri europei erano per me sempre fonte di una gran carica interiore. Amavo
molto la metodologia dei monaci, attenti sia alle esperienze con maggiore
visibilità sia a quelle più nascoste e umili.
Spero
che un giorno, in una città normale che abbia ospitato un incontro europeo, le
persone magari a livello di quartiere prendano coscienza, attraverso i giovani
animatori, che costruendo una rete di rapporti sociali, umani, ecclesiali
corretti si può rendere la vita più bella.
La
speranza portata da Gesù aiuta a vivere l’amore di Dio, invitandomi a mettermi
in cammino con lui e ad accoglierlo come centro della mia vita.
Con
le persone che mi accompagnavano cercavo sempre di condividere con dolcezza e
discrezione alcuni momenti per raccontare ciò di cui facevamo esperienza nel
corso della giornata, facendo attenzione alle richieste che ci erano rivolte.
Vi
sono anche incontri nazionali o regionali, al termine di quelli europei, in cui
si condividono esperienze ecclesiali e non di rado si scopre che alcuni temi e
problemi di fondo sono gli stessi, anche se le situazioni cambiano da paese a
paese. Ricordo in particolare alcuni incontri nei paesi dell’Est europeo dove,
soprattutto nei primi anni, erano i giovani ad animare gli eventi.
Onestamente
devo ammettere che dapprima consideravo noioso tutto questo. Ho capito solo in
seguito, e me ne rammarico, l’importanza di alcuni movimenti ecclesiali, e ho
personalmente molto rivalutato le opere di quei gruppi.
La
grande regola, forse non scritta, dei monaci riguardo agli incontri europei era
quella di offrire ai giovani qualche giorno per provare che cosa volesse dire
inserirsi nella vita della propria città. Ricordo alcune esperienze di
condivisione, come quella di una parrocchia di Parigi che ci ha fatto vedere
uno scambio con una parrocchia dell’ex Iugoslavia, o come, più indietro nel
tempo, quella di un’organizzazione simile a Telefono Amico in Italia.
Per
me è dolce ricordare che negli ultimi anni, durante gli incontri del mattino nelle
parrocchie, entravo in contatto con persone disabili e potevo toccare con mano quanto
fosse importante smettere di sentirsi e viversi come gli sfortunati della vita.
Ne ricavavo una gioia che non eliminava la fatica, ma la faceva passare in
secondo piano.
Tutta la vita è dire grazie
In tutte queste esperienze ho ricevuto e dato qualcosa di cui non finirò mai di essere totalmente grato ai miei genitori e a tutti gli amici che con me hanno condiviso un tipo di percorso che ha segnato la mia vita in modo inatteso e per molti anni.
Ringrazio
Gesù e i monaci della Comunità di Taizé che con il loro contributo silenzioso e
attento hanno favorito la maturazione di questa testimonianza, augurandomi che
sia uno stimolo per una sempre vigile ricerca dei doni di Dio, e per la
comunità ecclesiale a cui ho partecipato in questi anni di vita attraverso
varie esperienze.
Desidero
consegnare questo scritto a tutte le persone che ho conosciuto e con cui sono
stato in relazione. Vorrei stringere loro la mano e dare loro una carezza di
pace, augurando a tutti e a ciascuno un buon cammino nella vita.
In
questo periodo penso spesso a una frase che la madre di Frère Roger diceva
sempre, e che rappresenta la migliore conclusione anche per il mio racconto:
“Conosco il Dio in cui credo. Appunto per questo non temo la morte, ma la vita
sarà bella”.
[1] Negli anni Novanta avevo cominciato a
frequentare il grande gruppo di giovani, con disabilità e no, che si era
formato intorno a don Edelwais Montanari, allora parroco di Prunaro (una frazione
di Budrio, in provincia di Bologna). Ci si riuniva il venerdì sera per stare
insieme e svolgere attività di diverso tipo: feste di compleanno, momenti di
preghiera, incontri di approfondimento della fede. In estate si andava in
vacanza per una settimana in montagna. In questo folto “Gruppo del Don” (cioè
don Edelwais, per noi il “don” per eccellenza) non mi sono mai sentito disabile:
nel mio piccolo riuscivo a essere parte attiva e a stringere nuove amicizie. Si
stava insieme alla pari e ognuno, nella diversità della sua condizione di
partenza, offriva tutto il proprio esserci senza ruoli prefissati come quelli
di “disabile” e di “operatore” o “volontario”. Un modo per costruire dialogo che
ha molto arricchito la formazione umana e cristiana di tante persone a Bologna
e provincia, compresa la mia.