martedì 16 giugno 2020

Il mio posto nella vigna

Questo testo è di un amico di infanzia, Marco Mignardi, ed è la testimonianza della ricerca della sua vocazione.

IL MIO POSTO NELLA VIGNA

 

di Marco Mignardi

 

Un desiderio nuovo

   Un giorno del 1972 a Bologna, al Centro Bernardi, l’istituto dove mi recavo quotidianamente per fare fisioterapia per le gambe a causa della disabilità, incontro un ragazzo con cui ci mettiamo a parlare dell’estate che doveva ancora venire. Lui era un volontario che mi aiutava a svestirmi per attendere il turno di terapia in piscina. Allora suonava la chitarra, oggi è un rinomato liutaio, si chiama Roberto Regazzi. Casualmente gli chiedo: “Che cosa farai in estate?”. La sua risposta è lapidaria: “Vado a Taizé”. Io sono sempre stato un tipo curioso e cominciai a chiedergli che cosa fosse Taizé. Lui mi disse semplicemente: “È una comunità”.

   Nella mia testa immaginai che Frère Roger fosse una persona religiosa coadiuvata da un gruppo internazionale di ragazzi assolutamente laici. Ero lontano anni luce dall’idea che avesse fondato un monastero.

   In quel periodo ascoltai i racconti di alcuni giovani volontari che ogni tanto trascorrevano periodi più o meno lunghi sulla collina di Taizé. Il desiderio di andarci cresceva in me, anche se non avevo una chiara percezione di ciò che mi aspettava.

   Alcuni anni dopo, nel 1974, ascoltai alla radio un’intervista a Frère Roger. Mi colpì quella voce serena che parlava francese. Ricordo il suo entusiasmo molto contagioso. Alla fine del suo racconto ripresi a pensare quanto mi sarebbe piaciuto vedere quel luogo. C’erano i primi segni di una parola nuova e affascinante per me: dialogo. Forse questo tema mi coinvolgeva per la diversità di cui ero portatore a causa del mio deficit motorio. La disabilità può portare al dialogo, perché è una differenza che interpella. Il dialogo è una maniera per affrontare la situazione.

 

Il mio primo soggiorno a Taizé

   Nel 1979 conseguii il diploma di maturità. In quel tempo avevo conosciuto un amico durante un’esperienza di vita comune nella Comunità Papa Giovanni XXIII. Durante l’estate cominciai a pensare di realizzare il mio desiderio di andare a Taizé. Fu la sorella dell’amico a propormi, infine, di fare con loro questo viaggio di una settimana, tra la fine di luglio e l’inizio di agosto. La mia curiosità era al culmine.

   Il viaggio di per sé fu avventuroso e appassionante, ma vengo subito al momento dell’arrivo. Il primo impatto con la Comunità di Taizé sembrò rovesciare tutte le mie aspettative ideali. I monaci cantavano in latino; ciò mi apparve assurdo, dopo il Concilio Vaticano II. Il cibo, poi, era pessimo...! Lo definivo un Ufo, un oggetto volante non identificato. Negli anni successivi, però, la cucina di Taizé è molto migliorata.

   Dopo il primo giorno, se avessi avuto le capacità motorie per andarmene, sarei sicuramente ripartito e non credo proprio che sarei tornato una seconda volta.

   Ricordo però sempre con grande emozione il primo incontro con Frère Roger, perché si trattava di una persona veramente capace di riportare a Dio tutte le attese e i desideri umani. Almeno lui non era una delusione.

   D’altro canto la mia curiosità mi spingeva a cercare di comprendere più a fondo perché provassi tanta avversione verso un luogo che per anni avevo desiderato vedere. Nei giorni seguenti, quindi, pur essendo disgustato, decisi di mettere alla prova il mio francese scolastico e mi rivolsi a uno dei monaci della comunità, Frère Léonard. Sentivo il bisogno di un colloquio spirituale per chiedere che senso avesse la mia vita e come avrei potuto vivere da credente nella mia condizione di disabilità.

   Frère Léonard si presentò con la veste bianca (i monaci di Taizé la indossano soprattutto per la liturgia) e alla fine dell’incontro mi disse per tre volte che dovevo pregare. Per un attimo la profondità di quell’invito mi scosse. Poi mi presentò un confratello che parlava italiano, Frère Pierino, e mi disse che, se volevo, potevo continuare con lui il mio dialogo di approfondimento della fede.

   Accettai e dopo due giorni andai da Frère Pierino. Lui mi avvertì che Dio ama i tempi lunghi. Mi consigliò di cercare il senso della mia vita a Bologna, di cercare uno spazio vocazionale anche presso l’Associazione Papa Giovanni XXIII e di venire eventualmente a Taizé per momenti di ritiro spirituale. Parlando con lui mi resi conto anche di alcune caratteristiche del luogo. Cominciai a comprendere che mi trovavo in una comunità religiosa e che la vita dei monaci era interamente ritmata dalla preghiera.

   Durante quel primo soggiorno, con il responsabile del gruppo e un ragazzo messicano, Ramiro, svolsi un lavoro molto carino: mentre gli altri giovani pulivano i bagni, io dovevo dire “chiuso” in tutte le lingue. Anche questo era un servizio!

   In certi momenti assaporavo la serenità di quella collina e mi interrogavo sulle contraddizioni del mondo esterno. Il silenzio in comunità mi aiutava a riflettere sulla mia vita, anche se non comprendevo ancora che cosa potessi fare con la mia disabilità in un luogo come quello.

 

Il primo inserimento lavorativo: un’esperienza deludente

   Nel gennaio del 1980 cominciai a lavorare come impiegato presso un ente pubblico. Dovevo solo timbrare delle carte per tutto il giorno. Mi trovavo a vivere una realtà che non mi appassionava per niente e che non mi dava nulla rispetto alle soddisfazioni ricevute dallo studio. Cominciai a pensare di iscrivermi all’università. Solo diversi anni dopo avrei realizzato quel progetto. Dentro di me continuavo a interrogarmi, come se chiedessi a Dio: “Perché sono attratto da Taizé?”. A volte, nei giorni di malinconia, scrivevo a Frère Pierino che però non rispondeva quasi mai a causa degli impegni in comunità e perché, per sua stessa ammissione, non gli piaceva scrivere.

   In quel periodo, nonostante lo sgradevole impatto iniziale si fece strada in me il desiderio di conoscere meglio Taizé e di provare a viverci. Nel frattempo proseguivo un mio servizio caritativo presso la Mensa della fraternità della Chiesa bolognese: facevo compagnia alle persone povere che vi si recavano per mangiare. Non mi trovavo bene, invece, con l’Associazione Papa Giovanni XXIII; forse per colpa mia, mi ci sentivo sempre in una posizione passiva, come l’assistito di turno, mentre a Taizé non avvertivo molto la disabilità.

 

La concretezza della fede

   Il 1980 e il 1981 rappresentarono un periodo di transizione. Allora la fede per me significava fiducia, ad esempio nella persona che spingeva la mia carrozzina. Pensavo che la fede agisse in maniera quasi automatica e forse mi illudevo che questo bastasse a superare ogni tipo di ostacolo. Credo che sia vero quello che sentivo dire dai monaici di Taizé: Dio non si comporta come un padrone assoluto ma si fa collaboratore della storia umana, quindi anche della mia storia. Io non mi sono mai sentito condannato a vivere, ma ho sempre concepito la vita come un’opportunità. Quando ero più giovane pensavo ingenuamente che la fede s’incontrasse con la vita e invece, molto spesso, vedevo che vita e fede si scontravano. Condividere la fede non vuol dire accerchiare l’altro cercando di costringerlo a vivere ciò che io vivo, ma mettere in comune visioni sociali ed ecclesiali in ogni modo diverse, perché proveniamo da storie, tradizioni, modi di sentire e di essere che presentano una più o meno ampia varietà. In ogni caso si tratta di ascoltare la bellezza di Dio.

   La comunità di Taizé non offre ricette, proprio perché sceglie di ascoltare, e non propone in sé nessun tipo specifico di cammino. Offriva ai giovani un’esperienza che poteva aiutarli a inserirsi nella Chiesa locale di provenienza. Era frequentata infatti da molti ragazzi cristiani “marginali”, ancora non bene inseriti nelle loro parrocchie. Una volta a casa, ciascuno poteva entrare nella vita della chiesa locale e trovarci il proprio spazio. In questo quadro io parlavo spesso della mia avventura di giovane disabile che faceva il volontario alla mensa diocesana della Caritas a Bologna.

   La disabilità, richiedendo sempre qualche aiuto da parte degli altri, porta a relazionarsi con il prossimo e quindi con Dio. Spesso si diceva, quando ero piccolo, che per ottenere qualcosa si deve chiedere la grazia al Signore. Ma non è così, piuttosto bisogna aprire il cuore alla grazia che Dio già concede per il nostro cammino.

   In questa visione io non sono più lo spettatore passivo che subisce la diversità come una condanna, ma prendo parte con pieno diritto a compiti e responsabilità particolari. Perciò mi piacevano i piccoli lavori da svolgere in comunità. Ho imparato che un lavoro, anche se umile, si rivela importante nella visione complessiva.

 


Il tempo di Taizé

   Prima di conoscere Taizé non avevo mai visto un luogo in cui la preghiera ritmasse tutta la giornata e attraversasse la vita intera. Negli altri gruppi che ho conosciuto durante la mia giovinezza, notavo quasi un prima e un dopo la preghiera. Prima si faceva una discussione e dopo si pregava. La frase emblematica era: “Basta, ora andiamo a messa”, come se si trattasse di un’esperienza staccata dalla vita. A Taizé accadeva il contrario: la preghiera attraversava la vita, non era un elemento aggiuntivo o separabile. Nella comunità la preghiera e la vita s’incontravano.

   Dopo la sveglia alle otto, la preghiera del mattino è introdotta dal silenzio, mentre le campane richiamano i giovani e tutte le persone presenti a Taizé a riunirsi per cominciare la giornata in comunione con se stessi, con gli altri e con Dio.

   La preghiera del mattino comincia nel silenzio, ancor prima dell’arrivo in chiesa di tutti i monaci. Questo spazio di silenzio che apre il giorno aiuta poi a viverlo meglio; almeno, io sentivo così. Spesso decidevo nel mio cuore a chi avrei dedicato la preghiera comune di quel giorno; la mia intenzione rimaneva determinata e questo mi dava serenità.

   Di solito dopo il canto dell’Alleluia viene letto nelle varie lingue un brano del Primo Testamento, poi si canta un salmo. In seguito viene intonato un canone della comunità e si arriva al momento centrale della preghiera del mattino, il Silenzio: un silenzio prolungato che aiuta a entrare nel cuore della preghiera, dove tutto in quello spazio diviene armonia.

   Dopo è proclamata la preghiera dei fedeli. I monaci ricordano alcune situazioni o persone che vivono momenti di particolare gravità, o i loro amici che vivono in diverse parti del mondo.

   Infine si recita il Padre nostro, ognuno nella propria lingua; ci si scambia il segno della pace e ci si accosta all’eucaristia.

   Sull’onda di questa preghiera si va a fare colazione.

   Dopo c’era anche la possibilità di andare a spasso, ma a causa della mia limitazione motoria di solito mi ritrovavo a partecipare alla lettura biblica di gruppo. Questo mi ha in ogni caso consentito di scoprire l’importanza centrale della Parola. È un modo molto semplice di percepire la preghiera, direi più esperienziale che teologico. Anche nelle presentazioni dei personaggi biblici, tende a proporli come personaggi ordinari, con storie di vita fatte di frustrazioni e fallimenti, ma anche di gioia e di atti di fiducia.

    Con una prima introduzione fatta da un monaco della comunità, in cui viene presentato un brano biblico nelle varie lingue, si forniscono le chiavi di lettura per ciascuno nelle diverse situazioni di vita locale, nella propria situazione singola o di gruppo. Il frère pone alcune domande intese a stimolare la presa di coscienza per impegni concreti, là dove ognuno è chiamato dalla Provvidenza a vivere. Ci si divide poi in piccoli gruppi per condividere le risposte.

    I monaci rivolgono un’attenzione particolare alle realtà lontane, circoscritte e poco note. Non avevo mai fatto esperienza, prima di allora, di un metodo di lettura della Parola che collegasse la storia sacra alla storia di oggi. Nel pensiero comune accade sovente di guardare alla storia di oggi come se non facesse parte della storia di ieri. Invece mi sono reso conto, in quegli anni, che Dio guida la mia storia.

    Io fatico a comprendere perché si verificano situazioni in cui a volte vengo lasciato solo. In comunità la situazione di solitudine non sembrava un peso difficile da portare, forse perché vedevo dei monaci che avevano compiuto liberamente la scelta del loro stato di vita.

   In quel luogo una persona poteva anche osservare che nessuno era perfetto e che era il cuore di ogni singola situazione a contare, infine, davanti a se stessi e a Dio. Questa è stata per me una grande scoperta. I monaci dicevano che era il cuore che contava, non solo il rito ma la capacità di accogliere l’altro.

   Il mio cuore restava sempre favorevolmente sorpreso perché in comunità, nei limiti consentiti dalla parola, la libertà era accettata e nessuno in linea di massima sgridava i giovani, quindi anch’io vivevo e respiravo libertà. È chiaro poi che nel seguire o meno le attività proposte dalla comunità stessa, la persona viene responsabilizzata a puntino.

   Nei primi anni la preghiera del mezzogiorno rappresentava la maggiore novità per me. In nessun ritiro spirituale avevo mai visto fermare ogni attività e pregare in quell’ora.

   Alla fine la preghiera entra talmente nel tuo ritmo quotidiano che diventa parte di te. Questo è un cammino! Io devo ringraziare Dio e i miei responsabili, ma sei tu che scegli di pregare. Se non lo fai tu, nessun altro lo farà per te. Se Dio è un amico, perché non parlare con lui sempre, al di fuori degli schemi?

   Segue il pranzo, morigerato. La persona è richiamata alla sobrietà di vita con gesti semplici ed essenziali.

   Nel pomeriggio si svolgono prove di canto e piccoli gruppi di approfondimento, alternati a umili servizi da effettuare in comunità. Alle cinque si serve il tè, poi fino alle 19 il tempo è libero. Dopo la cena si fa la preghiera della sera. Infine, si passano le ultime ore cantando in allegria, fino alle 23, al bar di Taizé.

   Una volta andai a cena con i monaci e compresi che la loro sobrietà era una condivisione con i poveri del Sud del mondo. La semplicità e la scarsa quantità del cibo aiutavano a percepire il poco che tanta gente si trova sulla tavola, in contrasto con l’abbondanza dei paesi del Nord. Quel modo di condividere era attraente per i giovani del mondo ricco, che imparavano così a pensare alla reale situazione complessiva del genere umano.

   Come ho detto, seguivo in particolare i gruppi biblici. Verso la conclusione dei periodi di permanenza si svolgevano incontri per nazioni, tenuti dai fratelli nelle varie lingue. In quelle occasioni si tentava di mostrare come il cammino iniziato in comunità avesse condotto parecchie persone che si definivano lontane dalla chiesa ad avvicinarsi al Vangelo, a fare domande e a ricevere una salutare scossa riguardo al senso della loro vita.

   Capivo che qualcosa dentro di me andava modificandosi. Amavo la semplicità e la disponibilità di tutti ad aprire il proprio cuore, che si manifestavano in quelle circostanze.

   Negli incontri, quando si formavano i piccoli gruppi, si constatava come la realtà delle varie diocesi fosse molto diversa. Si parlava della vita ecclesiale locale, delle dimensioni caritativa e missionaria. La condivisione delle gioie e delle tensioni veniva a costituire un tentativo comune di dare una svolta alle attività dei gruppi giovanili per rinvigorire e infondere un nuovo slancio alle parrocchie.

   Si parla spesso della crisi di fede tra i giovani. Secondo me i pastori della comunità ecclesiale italiana potevano essere soddisfatti, almeno in quegli anni, guardando alle percentuali dei ragazzi italiani che si recavano a Taizé. Anche i monaci dicevano che gli italiani erano i più numerosi.

   Questa è la “tabella di marcia” della comunità fino al giovedì. Il venerdì, invece, dal momento del pranzo fino alle sedici si sta in silenzio. Segue la preghiera attorno alla croce, in cui tutti i giovani depongono dinanzi a Cristo i loro problemi, ansie e speranze, poggiando fisicamente la fronte sulla croce. Il sabato la preghiera della sera è un’anticipazione della liturgia domenicale in cui si legge il testo evangelico della risurrezione. Dopo, con tutte le candele accese, si canta la gioia del Risorto. Infine ci si ritrova a danzare al bar di Taizé.

   Parlare della domenica mi fa venire nostalgia perché era il giorno della partenza.

 

Luogo del cuore

   Io amavo Taizé per la vita semplice e perché per molti anni mi ci sono sentito a casa. Amavo la spontaneità della vita di Taizé dove nessuno giudica la tua storia. Il mio frutto personale è stata la condivisione con tutti e la pace interiore che nasceva dal consegnare a Gesù le proprie fragilità. Queste non sono negative: rappresentano il segno visibile che abbiamo bisogno di vivere Gesù come un amico che non ci abbandona mai.

   A Taizé pur nella diversità mi sentivo felice. Ritrovavo il senso del mio deficit motorio e ascoltando gli altri giovani mi pareva di non invecchiare mai. Mi sarebbe piaciuto provare una vera esperienza lavorativa, purtroppo non ci sono mai riuscito. A Taizé la morte fisica sembrava non farmi nessuna paura, mentre a Bologna ogni tanto mi chiedevo che cosa avrei consegnato a Gesù, perché talvolta mi sembrava di non riuscire a dare frutti di vita.

   Dal punto di vista delle capacità fisiche, forse Taizé non era il mio posto, però lo sentivo profondamente dentro di me e non riuscivo a farlo comprendere.

   Ci sono tre parole nella regola di Taizé. Gioia. Mi ha sempre colpito. Per Frère Roger significava qualcosa di interiore, qualcosa di trasparente alla vita: vivere come gocce di Vangelo. La semplicità dei rapporti umani come immediatezza, senza maschere, e la misericordia, l’apertura costante al cuore dell’altro.

   La semplicità è abituarsi a vivere con l’essenziale. A Taizé non hai bisogni indotti dal desiderio di possedere qualcosa, forse perché il povero e il ricco sono accolti nello stesso modo. Io non sentivo il peso della disabilità perché dovevo vivere le stesse tematiche che vivevano le persone normodotate.

   Misericordia significa trasparenza, cercare e trovare la comunione umana e spirituale con l’altro superando i nostri e i suoi limiti. Mai la durezza di cuore! Gesù lo dice chiaramente ai farisei: “Voi siete a posto con la legge ma il vostro cuore è duro come la pietra”.

   In sintesi, vivere con l’essenziale, avere un cuore aperto, pieno di fiducia e trasparente alla vita. Andare al di là del muro per vedere con occhi nuovi e pieni di speranza.

   A esperienza conclusa (penso di non tornare più a Taizé; vado solo alla preghiera mensile del gruppo di Bologna), posso affermare che la preghiera in comunità ha fortemente segnato la mia vita, anche se poi ho dovuto adattarla alle mie esigenze.

   Ora chiedo a Dio: “Come stai?”. Ho capito che anche con Lui bisogna instaurare una relazione d’amore e di vita.

 

Che cosa posso fare?

   A Taizé è stata eretta una Cappella delle Fonti, che ricorda a tutti i pellegrini il significato essenziale del battesimo. In questo angolo di silenzio sulla collina, chi vuole può riviverlo. A Taizé viene posta particolare attenzione ai tre sacramenti dell’iniziazione cristiana. Questi segni costituiscono il passaggio verso una vita consapevole nella fede per impostare un cammino vocazionale adulto.

   Solo negli ultimi anni dei miei ritiri a Taizé sentii interrogare i giovani sul significato di un sì a Gesù nel celibato. Io già da molto prima me ne sentivo attratto, anche se non capivo i segni interiori e come si manifestavano.

   In questa ricerca del mio posto nella vigna, mi rivolsi anche ad altri monaci. La risposta più sorprendente me la diede un confratello polacco, Frère Marek, quando gli chiesi come comprendere i segni di Dio: “I segni di Dio si comprendono nella piccolezza e nella semplicità”. In quegli anni mi aspettavo ancora qualcosa di evidente e magari percepibile, ma non ti viene dato l’originale del disegno. Cominciai allora a comprendere che dovevo accettare di non farmi domande, anche se a volte mi chiedevo quale senso avessero i miei ripetuti soggiorni sulla collina di Taizé. Dovevo collaborare al disegno, non pensarlo io. La collina faceva parte integrante della mia esperienza, non come io l’immaginavo, ma in maniera da dare una certa forma al mio rapporto con Dio.

   Desideravo che non mi rispondessero solo in funzione delle gambe storte o dritte, ma che una buona volta guardassero alla persona. Troppo spesso, infatti, di fronte alla mia disabilità sembra che tutti sappiano dirmi che cosa non posso fare, ma se si volge la domanda al positivo, su che cosa posso fare, allora non ci sono risposte.

   Una volta, in un’altra situazione, chiesi a Ernesto Olivero: “Se lei fosse nato disabile, sarebbe mai riuscito a fondare il Sermig?”. Mi rispose che nessuno gli aveva mai posto una domanda simile.

   Un motivo di delusione, per me, è stato il pensiero che bastasse la mia volontà per scegliere, mentre, come in ogni discorso di coppia, bisogna chiaramente essere in due. Forse però si sarebbe potuto verificare se davvero una persona con disabilità motoria non era capace di reggere alla vita di Taizé. Almeno per non escluderla in partenza dal gioco della vita.

   Racconto questo nella speranza che diventi più facile per le persone come me rivolgersi a una comunità religiosa per compiere un discernimento vocazionale, senza disagi o imbarazzi da ambedue le parti. Non solo la persona disabile nel suo cammino di fede può aver bisogno di comprendere quale sia la strada migliore per lei, ma anche la comunità dovrebbe aspettarsi richieste di questo tipo. Forse l’aspettativa, la “percezione di normalità” di una simile domanda influisce sulle maniere di rispondere.

   Colorare il cielo di blu e non vederlo sempre grigio potrebbe essere un primo spiraglio.

   In quegli anni un giorno Frère Pierino mi propose di provare un lavoro che, se fosse riuscito, si sarebbe rivelato molto attraente. Dovevo, nel negozio della comunità, cercare di vendere tutti i souvenir fabbricati dai fratelli. L’esperimento durò poco tempo e alla fine mi dovetti arrendere all’ennesima frustrazione sul piano umano. Il discorso si poneva anche in questi termini. In fondo la comunità non aggiungeva né toglieva niente alla mia ricerca nel quotidiano a Bologna, perché non ci vedevo nessuna esperienza diversa che io potessi fare.

   Intanto passavano gli anni. Ero partito con l’idea che sarebbe venuta un’indicazione nuova, ma alla fine non la vidi, almeno non in quel periodo.

   Nelle altre esperienze sentivo in maniera molto forte la disabilità che invece, a Taizé, percepivo diversamente. È probabile che io non vi abbia sperimentato tutte le difficoltà possibili, ma quella realtà mi piaceva perché l’avevo scelta io, senza nessun tipo di imposizione dall’esterno. Per fare un paragone con l’università, ero io che per una volta sceglievo l’esame da superare. Mi piaceva partecipare agli incontri, mentre qualcun altro preferiva andare a fare un giro. Io non ero là per turismo, trovavo molto interessanti quelle riunioni internazionali. Non rimpiango di aver fatto poche vacanze; così ho imparato uno stile che poi ho mantenuto, in una forma adattata alla situazione, nella mia vita quotidiana a Bologna.

   Un momento importante nella mia vita di fede fu anche, nel 1983, il viaggio che feci in Terra Santa insieme a due preti. Continuavo a recarmi a Taizé ogni anno, solo nel 1987 non ci riuscii perché non trovai nessun accompagnatore.


Uno strano esperimento

   Nel 1990, dopo un viaggio in Bretagna e Normandia, arrivo in comunità e riesco, nella settimana di gruppo biblico, a svolgere un servizio interessante. Provo, con le mie pur limitate capacità fisiche, a lavorare in chiesa nel trasporto dei panchetti. È un’esperienza, nel suo piccolo, molto originale e, seppure per breve tempo, risveglia e amplifica la mia curiosità.

   L’anno seguente, per la seconda e ultima volta, riesco a trascorrere due settimane complete e consecutive,  con l’aiuto di amici di Desio – conosciuti a Taizé – e di Bologna. 

   Anche nel 1991 ho fatto la settimana di gruppo biblico. Le difficoltà oggettive collegate all’impatto fisico andavano riducendosi e ci mettevo sempre meno a entrare in comunione con il luogo, con la comunità e i suoi ritmi, e in ultima analisi con Dio. Alla fine della settimana, nonostante le fatiche, ero contento e al pensiero di ripartire sentivo come un vuoto, un po’ di malinconia.

   Ogni anno la comunità di Taizé organizza un meeting giovanile in una città europea. L’incontro europeo del 1991 si svolse a Budapest. In quell’occasione Frère Pierino mi propose un lavoro di raccolta dati: mi diede un foglio in cui tutti i responsabili dei gruppi giovani dovevano scrivere nome, cognome, città di provenienza e il codice della parrocchia o della scuola di Budapest dove erano alloggiati. Tutti venivano da me per registrarsi ma alla sera, inavvertitamente, rovesciai un bicchiere di tè sul documento. Mi venne un attacco di depressione... Allora c’erano pochi computer e io non li sapevo usare.

   Nel 1992 vidi un monaco prendere i voti nella comunità. Se non ricordo male era coreano. Poco prima che Frère Roger cominciasse a interrogarlo durante il rito, decisi di fare un esperimento: di provare a rispondere nel mio cuore alle domande che il priore avrebbe rivolto al candidato che si accingeva a fare la professione perpetua. L’esperimento fu fallimentare, perché ad alcune domande mi venne naturale rispondere con un “sì”, ad altre con un “forse” e a quella sull’obbedienza con un “no”.

   Questa esperienza, per quanto tutta interiore e abbastanza strana, sembrò lasciarmi dentro un piccolo vuoto. Decisi di riprovare nel 1993, a Dio piacendo, il soggiorno di due settimane.

   Volli anche far conoscere la comunità di Taizé ai miei genitori, prima che diventassero troppo vecchi per affrontare il viaggio. Mio padre rimase colpito dal senso di comunione fra tutti i giovani e dal silenzio durante le preghiere comuni. Mia madre invece non conservò un ricordo preciso della settimana sulla collina.

   Io nel frattempo avevo visto finire un rapporto con una ragazza a cui volevo molto bene. Avevo gettato al vento le ore di permesso studio datemi dall’azienda in cui lavoravo. Ormai mi mancavano solo tre esami per laurearmi in Pedagogia, ma come studente universitario mi sentivo parecchio in crisi.

   In questo contesto nel 1993 decisi di non impegnarmi particolarmente a Taizé, limitandomi a fare una settimana di gruppo biblico e una settimana di silenzio.

 

Un inquietante presagio

   In quella settimana Frère Pierino cominciò un dialogo che io sulle prime non compresi bene. Mi disse infatti che dovevo distinguere tre livelli: 1) le cose che facevo e che mi piaceva fare, compresi gli studi universitari; 2) le cose che dovevo fare per forza ma che non mi piaceva fare, compresa la terapia; 3) le cose che non avrei mai potuto fare.

   Alla fine della seconda settimana di soggiorno a Taizé mi tornò in mente la domanda che ogni tanto rivolgevo a Dio: “Perché mi hai fatto frequentare per tanto tempo un luogo, se poi non era quello che dovevo scegliere in maniera finalizzata a un percorso di vita adulta?”.

   Mi resi conto che anche nella realtà ecclesiale scattavano gli stessi meccanismi che determinavano il rifiuto da parte delle ragazze: alla fine mi guardavano sempre le gambe. Solo che a essere respinto dalle donne ero già psicologicamente preparato, mentre da un monastero mi aspettavo margini di dialogo più ampi. Avevo creduto di poter scegliere qualcosa che piacesse anche a me, visto che entrava in gioco anche la mia volontà. Mi ero dunque illuso?

   L’episodio offre nella sua semplice drammaticità il vecchio problema: erano sempre gli altri a decidere per me. Anche se la loro decisione era forse la più saggia, io la sentivo e la vivevo nei momenti cruciali come un’imposizione. Tutti mi dicevano sempre che cosa non dovevo fare, ma quando si trattava di dirmi che cosa dovevo fare concretamente, sembrava che io appartenessi a una comunità che non c’è. Da qui al pensiero di non farmi più vedere a Taizé il passo era breve, ma ben presto sarei stato smentito dai fatti.

   Intanto l’università continuava e nel 1993 non avevo voglia di andare all’incontro europeo che si sarebbe svolto a Monaco. Il mio confessore e padre spirituale del tempo, don Edelwais Montanari, mi disse di cercare ancora e di ricordarmi che su Taizé lui non avrebbe mai detto di no.[1]

   Avevo conosciuto un sacerdote, don Massimo Ruggiano, che stava per recarsi all’incontro europeo di Monaco. Come il figlio della parabola, che dapprima dice no alla richiesta di andare a lavorare nella vigna del padre, ma poi si pente e ci va, dopo un momento di profonda avversione mi lascio prendere e alla fine parto con slancio.

   A quel punto, dopo aver ricucito l’ennesimo strappo con Frère Pierino, la vita continua. Don Massimo, tra gli agi di un convento di suore tedesche, mi confida il suo progetto di costruire un focolare della Comunità dell’Arca nella parrocchia dove allora faceva il cappellano, a Medicina in provincia di Bologna. In seguito l’Arca si stabilì definitivamente in un’altra parrocchia della provincia bolognese, a Quarto Inferiore.

   In quegli anni avevo conosciuto una ragazza presso la mensa diocesana di Bologna, e me ne ero innamorato. A volte dicevo a Dio, scherzando ma non troppo: “Fammi restare in una delle due realtà, la ‘diocesi di Bologna’ o Taizé”. Per me furono anni di grande silenzio divino, perché quella ragazza poi si sposò e non la rividi mai più.

   Don Massimo mi chiese: “Quando tornerai in comunità a Taizé?”. Mi sentivo incerto e confuso, risposi che non sapevo se ci sarei tornato. Il desiderio si era affievolito nel mio cuore e sembrava chiaro che non sarei riuscito a diventare monaco in quella comunità. Negli anni 1994 e 1995 non ci andai.

 

L’anno della laurea

   Il 20 marzo del 1996 si realizza un sogno di cui forse solo adesso comincio a valutare la portata complessiva. In quell’ultimo mattino d’inverno concludo il mio ciclo di studi conseguendo la laurea in Scienze dell’educazione. Non pensavo più alla comunità, ma Dio invece ci stava pensando, in quel suo modo così diverso dal mio.

   Avevo lasciato per ovvi motivi anagrafici il gruppo giovani della parrocchia. Una domenica di fine marzo, alla preghiera mensile che si ispira alla comunità della collina francese, il cappellano di allora, don Tino Modena, mi dice: “Marco, vorrei conoscere la comunità di Taizé. Vieni anche tu?”. Ancora una volta mi comporto come il figlio della parabola: all’inizio mi rifiuto, poi mi pento e alla fine accetto. Per me l’entusiasmo ha sempre l’ultima parola affermativa. Così nella settimana dopo Pasqua del 1996 parto con don Tino e altre otto persone.

   In quella settimana per la prima volta partecipo al gruppo biblico con gli adulti. Al primo incontro con Frère Pierino gli faccio le mie scuse per avere interrotto i rapporti, ma continuo a non accettare il discorso dei tre livelli: 1) le cose che fai e che ti piace fare; 2) le cose che devi fare per forza ma non ti piacciono; 3) le cose che non potrai mai fare.

   Un giorno accade un episodio che mi fa riflettere. Dimentico il borsello aperto con molto denaro e lo lascio incustodito. E proprio Frère Pierino mi sgrida severamente. Nella sostanza mi richiama al valore dei soldi. Rimango perplesso perché ritenevo che i soldi non dovessero avere l’ultima parola, pur comprendendo che è sbagliato lasciarli in giro.

   Frère Pierino era l’economo della comunità. In quei giorni dovette rifiutare di accogliere un giovane di colore che non poteva pagare la retta. Pierino ci rimase ancora più male del ragazzo. Si sentiva in colpa da morire. A me sembrò che la comunità lo stesse lasciando solo. Dal mio punto di vista anche il responsabile di un settore dell’amministrazione è una persona che ha bisogno di essere sostenuta nelle sue decisioni. Io non sapevo come aiutare Pierino a portare quel peso. Questo episodio mi fece venire qualche dubbio nei confronti della comunità.

   Quella settimana pasquale del 1996 si concluse con la promessa che feci a Frère Pierino di rivederci in agosto.

 

Una risposta sconfortante

   In seguito decisi con un amico di passare una settimana d’agosto in comunità. Realizzavo così per la seconda volta il desiderio di andare sulla collina... da laureato. La prima volta non ne avevo avuto una consapevolezza così chiara.

   Incontrai nuovamente Frère Pierino e lo vidi molto teso, come quasi mai l’avevo visto prima di allora, al punto che ne fui un poco intimidito e rinviai a un momento migliore la domanda che intendevo rivolgergli. La motivazione di quell’estremo nervosismo era la scomparsa improvvisa di Max Thurian, il vice priore della comunità.

   Rividi Frère Pierino il sabato successivo. Nel frattempo avevo superato ogni resistenza interiore a porre la richiesta. Non c’era niente di male.

   La domanda fu: “Secondo te quale ruolo potrei avere in una comunità come questa e specificamente a Taizé?”.

   La risposta fu: “Nessuno, perché tu sei condannato a vivere una condizione che non ti consente certe cose. Ormai sei grande”.

   Queste parole provocarono in me un grande sconforto, tanto più pensando a chi me le aveva dette. Fin da subito provai a cancellarle dalla mente, ripromettendomi di non porre mai più a un religioso domande del genere. Provai in ultima analisi a cancellare Dio, ma una simile operazione non riesce a nessuno, perché Dio abita sempre nel profondo del cuore di ciascuno.

   La crisi, dopo diverse fasi, è superata. Adesso, quando vivo momenti di maggiore malinconia, ogni tanto chiedo a Dio: “Perché mi hai fatto incontrare la comunità per tanti anni, se non era quello il cammino che dovevo percorrere per una maturazione umana e spirituale?”. E gli dico: “Spero che alla fine sarai contento di come ho trattato i talenti che mi hai donato. Spero che tu mi prenda nel tuo regno che rimane l’essenza stessa dell’incontro con Te, nell’eternità che non avrà mai fine”.

   Nonostante lo sconforto provato, considero tuttora Pierino un amico, anche se non l’ho più incontrato.

 

La fede, la disabilità e una diversa visione di Dio

   Fin da piccolo, nella mia pur complessa situazione fisica, ho sempre pensato che Dio con me non si è sbagliato. Ho sempre rifiutato quasi strutturalmente la visione del “condannato a vivere”. Da bambino vivevo la disabilità come un’opportunità. Con il passare del tempo mi sono accorto che però il mondo la osservava con uno sguardo che induceva passività e tendeva a rendere inutili gli sforzi per migliorare la situazione. Poi, è chiaro che io non cerco rivendicazioni con i doni di Dio, cioè con la vocazione religiosa. Non volevo fare il frate per forza ma avere delle risposte sulla mia vita e nella mia ingenuità pensavo che i monaci me le potessero dare.

   Frère Roger ha esercitato su di me un forte carisma con la sua estrema discrezione. Ricordo ancora il nostro primo incontro, quando mi chiese se ero credente. D’impeto gli risposi: “Forse”. Lui mi disse: “Dio ha attraversato la via della croce prima degli uomini. Questo ti conforti nell’attesa della vita eterna. Si può vivere la croce con la prospettiva che Dio accompagna l’uomo sempre. Anche quando noi non ce ne accorgiamo, Dio è sempre presente e attento alle vicende delle persone”.

   Ricordo sempre il senso di rispetto e d’attenzione che aveva nelle meditazioni brevi, perché in chiesa era Dio che doveva parlare, non gli uomini.

   Io, pur nella mia difficoltà di compiere una scelta vocazionale, mi sono sempre sentito compreso nel profondo da Frère Roger, perché non etichettava mai il cuore umano. Forse per lo stesso motivo, quando mi trovavo a Taizé non avevo paura della morte.

   A Taizé ho imparato a vedere Dio come un amico, non come un giudice che condanna ogni mio difetto. Frère Roger diceva che Dio scende fino al punto più basso in cui si trovano gli esseri umani. Questo pensiero mi ha sempre confortato molto. Anche quando tendevo ad autogiudicarmi troppo, meditando sull’amore di Dio ritrovavo un senso di grandissima pace interiore. Accettavo di partire da Gesù, non dai miei successi o fallimenti.

   Dio scende nel punto più basso della mia fragilità quando mi sento sconfitto. Questo pensiero all’inizio mi ha inquietato un poco, ma poi ho capito che Dio non vuole punire, non picchia sulle mie fragilità.

   Il giorno della traumatica scomparsa di Frère Roger, dopo il lacerante sconcerto iniziale, avvertii da un lato il distacco della morte, dall’altro la tenerezza della morte. Non avevo mai provato una sensazione così profonda e misteriosa in seguito alla scomparsa di una persona conosciuta. Da quel giorno la mia paura della morte è divenuta tenerezza. Mentre prima pensavo alla morte lasciandomi dominare dalla paura, ora ricordo Frère Roger che ne parlava come della via per l’eternità, per incontrare un Altro che non è un giudice pronto a punire i miei limiti, ma un amico che condivide il mio cammino.

   Nel 1997 non chiesi un incontro con Frère Pierino. Decisi, forse in maniera inconsapevole, di prendermi una pausa di riflessione. Non immaginavo che quello sarebbe stato il mio ultimo soggiorno a Taizé. Fino ad oggi le circostanze della vita non mi hanno più consentito di tornare nella comunità sulla ridente collina della Borgogna.

   Fu una settimana molto ordinaria. Ricordo la dolcezza di alcuni tramonti sulla collina, sempre tersi di speranza per la mia vita, per quella delle persone a me più vicine e per tutti gli uomini che vivono con me su questo meraviglioso pianeta.

 

Gli incontri europei

   Anche dopo aver cessato di recarmi in estate nella comunità di Taizé, ho continuato a partecipare ai suoi incontri europei della durata di cinque giorni a fine anno. Ne ho seguiti ventiquattro, fino al 2007. Mi piacevano moltissimo. Ringrazio tutte le persone di Bologna che nel corso del tempo hanno condiviso con me quella grande avventura. Era come mettersi in viaggio insieme a Dio.

   Ammiro la comunità perché con questi incontri si immerge nel ritmo urbano e sceglie di incontrare un mondo civile ed ecclesiale nel suo complesso.

   Incontrare famiglie e parrocchie, ascoltare esperienze anche di matrice laica vuol dire far percepire, come diceva Frère Roger, che Dio parla a tutti, si fa vicino a tutti ed è qui per tutti e con tutti.

   Sì, gli incontri europei erano per me sempre fonte di una gran carica interiore. Amavo molto la metodologia dei monaci, attenti sia alle esperienze con maggiore visibilità sia a quelle più nascoste e umili.

   Spero che un giorno, in una città normale che abbia ospitato un incontro europeo, le persone magari a livello di quartiere prendano coscienza, attraverso i giovani animatori, che costruendo una rete di rapporti sociali, umani, ecclesiali corretti si può rendere la vita più bella.

   La speranza portata da Gesù aiuta a vivere l’amore di Dio, invitandomi a mettermi in cammino con lui e ad accoglierlo come centro della mia vita.

   Con le persone che mi accompagnavano cercavo sempre di condividere con dolcezza e discrezione alcuni momenti per raccontare ciò di cui facevamo esperienza nel corso della giornata, facendo attenzione alle richieste che ci erano rivolte.

   Vi sono anche incontri nazionali o regionali, al termine di quelli europei, in cui si condividono esperienze ecclesiali e non di rado si scopre che alcuni temi e problemi di fondo sono gli stessi, anche se le situazioni cambiano da paese a paese. Ricordo in particolare alcuni incontri nei paesi dell’Est europeo dove, soprattutto nei primi anni, erano i giovani ad animare gli eventi.

   Onestamente devo ammettere che dapprima consideravo noioso tutto questo. Ho capito solo in seguito, e me ne rammarico, l’importanza di alcuni movimenti ecclesiali, e ho personalmente molto rivalutato le opere di quei gruppi.

   La grande regola, forse non scritta, dei monaci riguardo agli incontri europei era quella di offrire ai giovani qualche giorno per provare che cosa volesse dire inserirsi nella vita della propria città. Ricordo alcune esperienze di condivisione, come quella di una parrocchia di Parigi che ci ha fatto vedere uno scambio con una parrocchia dell’ex Iugoslavia, o come, più indietro nel tempo, quella di un’organizzazione simile a Telefono Amico in Italia.

   Per me è dolce ricordare che negli ultimi anni, durante gli incontri del mattino nelle parrocchie, entravo in contatto con persone disabili e potevo toccare con mano quanto fosse importante smettere di sentirsi e viversi come gli sfortunati della vita. Ne ricavavo una gioia che non eliminava la fatica, ma la faceva passare in secondo piano.


Tutta la vita è dire grazie

   In tutte queste esperienze ho ricevuto e dato qualcosa di cui non finirò mai di essere totalmente grato ai miei genitori e a tutti gli amici che con me hanno condiviso un tipo di percorso che ha segnato la mia vita in modo inatteso e per molti anni.

   Ringrazio Gesù e i monaci della Comunità di Taizé che con il loro contributo silenzioso e attento hanno favorito la maturazione di questa testimonianza, augurandomi che sia uno stimolo per una sempre vigile ricerca dei doni di Dio, e per la comunità ecclesiale a cui ho partecipato in questi anni di vita attraverso varie esperienze.

   Desidero consegnare questo scritto a tutte le persone che ho conosciuto e con cui sono stato in relazione. Vorrei stringere loro la mano e dare loro una carezza di pace, augurando a tutti e a ciascuno un buon cammino nella vita.

   In questo periodo penso spesso a una frase che la madre di Frère Roger diceva sempre, e che rappresenta la migliore conclusione anche per il mio racconto: “Conosco il Dio in cui credo. Appunto per questo non temo la morte, ma la vita sarà bella”.



[1] Negli anni Novanta avevo cominciato a frequentare il grande gruppo di giovani, con disabilità e no, che si era formato intorno a don Edelwais Montanari, allora parroco di Prunaro (una frazione di Budrio, in provincia di Bologna). Ci si riuniva il venerdì sera per stare insieme e svolgere attività di diverso tipo: feste di compleanno, momenti di preghiera, incontri di approfondimento della fede. In estate si andava in vacanza per una settimana in montagna. In questo folto “Gruppo del Don” (cioè don Edelwais, per noi il “don” per eccellenza) non mi sono mai sentito disabile: nel mio piccolo riuscivo a essere parte attiva e a stringere nuove amicizie. Si stava insieme alla pari e ognuno, nella diversità della sua condizione di partenza, offriva tutto il proprio esserci senza ruoli prefissati come quelli di “disabile” e di “operatore” o “volontario”. Un modo per costruire dialogo che ha molto arricchito la formazione umana e cristiana di tante persone a Bologna e provincia, compresa la mia.


martedì 12 dicembre 2017

Di generazione in generazione

Mi sono chiesto perchè alcuni genitori riescano a trasmettere la fede e i valori ai propri figli e altri no, infatti spesso ci sono persone che hanno fatto un cammino di fede molto intenso e hanno cercato di trasmetterlo ai figli senza successo.
Molto dipende dal contesto in cui si è inseriti come famiglia, ad esempio far parte di un gruppo di famiglie più ampio e impegnato concretamente in qualche servizio, può costituire un esempio per i ragazzi: i figli vedono a cosa può portare credere in certi valori e non si limitano ad ascoltare parole anche se molto belle.  Vedere le opere che la fede può compiere, li può portare a fare scelte coraggiose. Naturalmente non c’è una ricetta valida per tutti, perchè ognuno reagisce in modi diversi; fatto salvo il libero arbitrio di ognuno penso che un esempio concreto sia di grande aiuto. Ad esempio l’attività con persone disabili è una testimonianza per i giovani, perchè vedono concretamente che cosa vuol dire l’amore purchè questo servizio non diventi un obbligo per i ragazzi altrimenti si ha la reazione opposta.   


martedì 20 giugno 2017

Camminare verso l'Altro

Nel Vangelo di Matteo (Mt 14, 22-36) troviamo l’episodio di Gesù che cammina sulle acque.
La prima cosa da notare, in questo brano, e' che prima di iniziare il cammino Gesù e' sul monte da solo a pregare. Il cammino verso gli altri inizia nella solitudine e nella preghiera. Poi Gesù attraversa i campi e arriva alla riva del mare. Fin qui e' tutto normale. Però adesso c' e' il mare. E non e' una cosa naturale camminare sulle acque eppure Gesù non si ferma davanti a questa difficoltà. Vuole raggiungere i suoi amici e per questo va avanti.
Anche noi a volte dobbiamo fare lo stesso percorso e Gesù vuole che anche noi camminiamo sulle acque. Quando Pietro gli chiede di andare da lui Gesù non dice di no, non dice "tu sei un uomo e io sono Figlio di Dio", ma gli dice "vieni!".Gesù non e' geloso del suo potere, ma vuole condividerlo. Il problema e' che Pietro non ci crede ed ha paura.
 Camminare sulle acque non e' naturale ma con Gesù si può fare così come non e' tanto naturale che una persona disabile faccia un cammino di fede o che venga considerata felice, ma con l'aiuto di Gesù e degli altri amici può essere possibile.
Pietro ha paura del vento o delle onde ma soprattutto non crede di poter fare quello che fa Gesù e questo e' anche il nostro problema cioè il problema di ognuno di noi. Non crediamo fino in fondo che Gesù sia venuto a condividere la sua natura divina come dicono due padri della Chiesa,  Ireneo e Atanasio.

( cfr CCC 460) Infatti, questo è il motivo per cui il Verbo si è fatto uomo, e il Figlio di Dio, Figlio dell'uomo: perché l'uomo, entrando in comunione con il Verbo e ricevendo così la filiazione divina, diventasse figlio di Dio.(Sant'Ireneo di Lione, Adversus haereses, 3, 19, 1: SC 211, 374; PG 7, 939).

Infatti il Figlio di Dio si è fatto uomo per farci Dio.(Sant'Atanasio di Alessandria, De Incarnatione, 54, 3: SC 199, 458; PG 25, 192).

Eppure è proprio questo lo scopo dell'incarnazione, è proprio questo il regalo che Cristo è venuto a farci. È un regalo per tutti e soprattutto per chi deve camminare sulle acque tempestose per arrivare all'Altro.





mercoledì 22 febbraio 2017

Servo-padrone

Il rapporto tra medico e malato o tra fisioterapista e paziente dovrebbe essere sempre improntato sulla collaborazione e sulla reciprocità; il soggetto preso in cura non dovrebbe essere considerato un oggetto, ma per quanto possibile dovrebbe cooperare.  In generale bisogna passare da un rapporto strumentale servo-padrone a un rapporto umano di amicizia. Questo implica l’accettare la debolezza nei rapporti. Il rapporto strumentale dà una certa sicurezza sia al padrone che al servo in quanto c’è una certezza nei ruoli, che porta a una tranquillità e a non dover mettersi in discussione.  Il rapporto di amicizia ha meno certezze, non ha orario. Naturalmente non tutti i rapporti possono essere delle amicizie, ma a me è capitato che molti rapporti di lavoro con il tempo diventassero tali.

martedì 13 dicembre 2016

Persone attivanti

Le persone con disabilità possono essere soggetti attivi o attivanti. Una persona attivante è apparentemente in condizione di totale passività, ma se inserita in un contesto di solidarietà, con la sua presenza, genera nel gruppo di persone, che ha intorno, affetto e sollecitudine.Queste sono generate non solo nei suoi confronti, ma a volte nascono anche tra i vari “aiutanti”, che possono, in alcuni casi, diventare veri amici tra loro. Quindi il più disabile di tutti può dare la cosa più importante di tutte, sul piano umano, sociale e morale, cioè l’amicizia. In questo senso è attivante, perché attiva gli altri.

mercoledì 23 novembre 2016

Il muro

Qualsiasi impero che costruisce muri va in rovina.
I muri sono segni contemporaneamente di compiutezza e di debolezza: quando si costruisce un muro significa che non si vuole andare oltre ad esso. Riflettendo sul muro di Berlino, a 25 anni dalla sua caduta, si possono vedere le sue contraddizioni.
Il comunismo che doveva essere una rivoluzione mondiale, capace di estendersi a tutti i popoli, attraverso la costruzione del muro rivelò implicitamente tutti i suoi limiti; infatti è crollato dopo 20 anni, un tempo molto breve per la storia.
Il comunismo doveva essere la società perfetta, capace di attirare tutti i popoli mentre il muro è stato costruito per impedire la fuga. Quindi la compiutezza che di solito viene interpretata come segno di forza, in realtà può anche essere interpretata come un segno di debolezza o almeno dell’inizio della crisi.

Oggi in Europa e negli Stati Uniti si stanno costruendo muri per proteggersi dagli immigrati, questo rende evidente che non si è imparato niente dalla storia, poiché questa dimostra che qualsiasi muro alla fine viene distrutto.

martedì 15 novembre 2016

La periferia al centro

Papa Francesco invitati tutti ad “imparare ad uscire da noi stessi per andare incontro agli altri, per andare verso le periferie dell’esistenza, per primi verso i nostri fratelli e sorelle, soprattutto i più lontani quelli che sono dimenticati, quelli che hanno più bisogno di comprensione e aiuto”.
Quando il Papa è andato a Lampedusa, l’isola è diventata per qualche settimana il centro d’interesse dell’Europa, perchè la sua presenza ha attirato l’attenzione dei media su quel luogo e su ciò che rappresenta.  Spenti i riflettori sulla vicenda, Lampedusa è tornata ad essere al margine dell’interesse collettivo e qualche mese dopo c’è stata l’ennesima tragedia in mare.

Secondo me bisognerebbe trasformare le periferie in centri, ma per esserlo davvero bisognerebbe che fossero collegate con altri centri, poiché ogni centro è un luogo da cui partono tante strade che portano agli altri, mentre le periferie sono state isolate. Questo discorso vale anche a livello personale, in particolare nel caso della persona disabile. Infatti essa ha difficoltà a collegarsi con gli altri per tanti motivi; potrebbe diventare un centro se aiutata, se messa in condizione di avere rapporti non soltanto di cura o di assistenza, ma anche d’amicizia, anche se poi questi due tipi di relazione non si escludono. Perchè accada questo la prima cosa necessaria è una famiglia che aiuti la persona disabile a non chiudersi, ma a buttarsi nel mondo e che non stia sempre in ansia per lei, che non la accompagni sempre ovunque, ma che la lasci ai suoi operatori e ai suoi amici.